Crack, salvataggi, maxi fusioni: 10 anni di svolta per le banche europee

I crack delle banche venete, di Popolare Bari e altre banche minori. Gli aumenti di capitale di Mps e altre banche, con sacrifici per azionisti e dei dipendenti. Gli acquisti di Ubi, Carige e Creval da parte rispettivamente di Intesa Sanpaolo, Bper e Agricole. Ma anche la creazione, nel suo insieme, di un settore bancario più solido, efficiente e redditizio. Che nel corso di un decennio, da ultimo della classe, è addirittura salito ai vertici in Europa per valutazione borsistica. Tanto da aver portato alla formazione di alcuni dei più grandi gruppi europei, da Intesa a UniCredit, che oggi giocano una partita su scala continentale.

Esattamente dieci anni fa – era il novembre 2014 – la Bce assumeva la vigilanza diretta delle banche significative dell’area euro, segnando l’istituzione del primo pilastro dell’unione bancaria. E l’Italia, al pari degli altri Paesi, forse senza saperlo stava entrando nel decennio che avrebbe cambiato per sempre il volto delle sue banche. Dieci anni in cui, come sull’ottovolante, si sono affastellati crack e salvataggi, crisi e fusioni, maxi-perdite e ricchi profitti. Dieci anni in cui la Vigilanza Bce, spesso criticata (e criticabile) per la sua pervasività, è intervenuta con regole ritenute anche asfissianti. Ma che è stata anche il pungolo per un cambiamento strutturale negli approcci manageriali e nei processi di governance che le banche hanno fatto proprio, guidandolo dall’interno. E che oggi è la base di partenza per una nuova fase, per affrontare le sfide geopolitiche, tecnologiche e della transizione green.

Che cosa è successo

Il decennio che ha cambiato le banche nasce in verità qualche anno prima del 2014, con la grande crisi finanziaria del 2008. A generarla sono gli Stati Uniti, ma le conseguenze si scaricano ben presto in Europa, con la crisi del debito sovrano del 2011. Per Italia, Spagna Grecia e Irlanda è un effetto valanga. Perché nel tempo si cumula una montagna di oltre 1,3 trilioni di euro di crediti deteriorati che sfondano i bilanci bancari, di cui 360 miliardi in Italia. Nel nostro Paese la scintilla di una crisi che avrebbe squassato il mercato scatta nel 2015, con l’entrata in crisi di quattro banche territoriali del Centro Italia: Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara, Carichieti, banche fragili, che secondo una interpretazione di Bruxelles sulla nuova normativa europea devono finire in risoluzione. L’interpretazione sarà poi ribaltata nel tempo dai giudici Ue, ma intanto nel quadro di quella risoluzione vengono svalutati pesantemente i crediti delle 4 banche. Sembra un dettaglio. Ma ciò, a cascata, farà da benchmark per tutto il settore, generando una revisione al ribasso delle valutazioni di gran parte delle sofferenze di tutte banche italiane, costringendo così a svendite pesanti. La svalutazione massiccia di quegli asset, unita a situazioni patologiche di singoli istituti, dove spesso alla malagestio si intrecciano politiche creditizie spericolate e conflitti di interesse, porta all’entrata in crisi di alcuni dei maggiori gruppi bancari, da Mps a Carige, solo per citare i maggiori. Costringendo a rettifiche di valore e a perdite a ripetizione. Ma anche a rafforzamenti di capitale in serie – dal maxi aumento di UniCredit da 13 miliardi del 2017 agli oltre 23 miliardi di Mps dal 2008 – con riorganizzazioni forzate, riassetti di governance e cambi di strategia. Chi non ce l’ha fatta, anche per spinta della Vigilanza, ha alzato bandiera bianca. Ma chi nel frattempo ha resistito, ha “mangiato” i concorrenti. E così, complice anche la riforma delle Popolari e delle Bcc, se a inizio 2014 in Italia si contavano 684 banche (di cui 385 bcc), oggi il numero è sceso a 428 (di 222 di cui Bcc), con un calo di quasi il 40%, secondo i dati Bankit.

I tre fronti di cambiamento

L’effetto, oggi, è che a distanza di dieci anni il mercato è più concentrato. Ma è anche più performante, perché nel frattempo le banche hanno ripulito e rinforzato i bilanci. Almeno tre sono le direttrici su cui le banche italiane hanno fatto passi da gigante, superando anche il resto d’Europa. La prima è quella della patrimonializzazione. Secondo un’analisi di Prometeia elaborata per Il Sole 24 Ore, il Cet1 delle maggiori banche Ue è passato dal 12,7% al 15,7%, +300 punti. Il quadro bancario italiano, va detto, è variegato, con tante sfumature tra realtà medio-grandi e minori, dove punte di eccellenza si mescolano a istituti meno brillanti. Ma nel complesso l’Italia ha registrato il balzo maggiore con una crescita del Cet 1 di 440 punti, al 15,9%. Molto si deve all’incremento del numeratore, il capitale (+10%), ma decisivo è stato il calo del denominatore (gli attivi ponderati), scesi del 20%, a conferma di una maggiore attenzione nell’erogazione e del forte derisking da parte degli istituti.

Il secondo fronte su cui le italiane si sono distinte riguarda la qualità degli attivi. Spinte dalla Vigilanza, le banche italiane hanno ripulito i bilanci. Mossa che è costata in termini di rettifiche, e di minori utili, ma che ha portato l’Italia ad allinearsi al resto d’Europa. Anche grazie alla nascita di un vivace mercato di investitori e servicer e al supporto delle garanzie pubbliche – tanto da aver ricevuto il plauso dell’Fmi – l’Italia ha visto crollare il rapporto tra prestiti deteriorati lordi di oltre dal 17% in dieci anni, a poco più del 2%, in linea con l’1,9% di media Ue.

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