Prima il Los Angeles Times. Poi il Washington Post. Nello sprint finale verso il voto presidenziale per la Casa Bianca tra i grandi giornali americani, o meglio i loro proprietari, è scattata invece una corsa a ritroso. Una fuga verso l’agnosticismo alle urne che ha destato un crescendo di allarme, per il rischio di intimidazione, o interessato disimpegno, davanti allo spettro di un nuovo possibile successo di uno dei due candidati. Di quel Donald Trump che ha apostrofato i media non allineati con lui, oggi come ieri, “nemici del popolo”. Che ha sbandierando il ricorso a esercito e procuratori federali contro proteste sociali e avversari o critici identificati alla stregua “nemici interni”, di quinte colonne più pericolose di nazioni avversarie. Che ai comizi di regola invoca azioni quali togliere la licenza Tv alla rete Cbs, colpevole di non accogliere le sue richieste.
La “neutralità” del Washington Post
L’ultimo accusato di genuflettersi davanti alle ire di Trump è stato anche il più influente: il blasonato quotidiano che portò alla luce lo scandalo Watergate e scrisse la parola fine Presidente duro quale Richard Nixon. Ha annunciato la fine d’una tradizione ultratrentennale, che risale al 1976, di “endorsement” di candidati presidenziali. E lo ha fatto in extremis, a pochi giorni dal voto, dopo che l’appoggio della redazione degli opinionisti aveva già redatto l’editoriale di appoggio…a Kamala Harris. Circostanze che hanno reso difficile ai giornalisti della stessa testata, oltre che ad analisti e osservatori, dar credito a ragioni più nobili del desiderio di tregue o patti inquietanti tra ricchi e potenti: il Post e il Los Angeles Times, che ha preso una simile decisione, sono oggi in mano a miliardari con ampi interessi al cospetto del governo. La scelta di astensione ha scatenato una serie di dimissioni dalle pagine delle opinioni e degli editoriali, sia al Los Angeles Times che al Washington Post, continuate nel fine settimana. Al Post 19 opinionisti hanno firmato una lettera aperta di denuncia di ciò che hanno definito come “una terribile decisione”.
Né la neutralità è fatta solo di casi eccellenti e isolati, aggravando il segnale inviato. Prima ancora, in agosto, il Minnesota Star Tribune aveva seguito la medesima strada, anche lui sotto l’egida d’un magnate della comunicazione grafica, Glen Taylor, nonostante nei suoi ranghi dirigenziali abbia un ex collaboratore del candidato democratico alla vicepresidenza Tim Walz. In gioco, con il susseguirsi delle retromarce, è entrato il discusso concetto, citato dalla rivista specializzata Columbia Journalism Review, di “anticipatory obedience”, vale a dire obbedienza anticipata, che precede ogni risultato delle urne, a dimostrazione di ossequio per mettersi al riparo da vendette.
L’avanzata dei social media
Va detto che la stagione d’oro degli appoggi dei media a leader politici in gara è in generale da tempo al tramonto negli Stati Uniti, di pari passo con la loro minor influenza e ridotte schiere di lettori, e con l’avanzata piuttosto dei social media quale grancassa sregolata ed efficace di opinioni e promozioni politiche. Una realtà che ha spinto testate piccole e grandi a cercare di non irritare ulteriormente alcuna parte dei restanti abbonati, tanto più che le pagine delle opinioni sono considerate tra le meno lette (un’analisi di Gennett). E tanto più quando proprietari di giornali sono spesso e volentieri diventati finanzieri o finanziarie, non più pure dinastie editoriali. In anni recenti il gruppo di testate che fa capo al fondo hedge Alden Global Capital, dal Chicago Tribune al Boston Herald, era stato tra i pionieri delle diserzioni politiche, intensificando il trend. E già nel 2020 solo 54 delle maggiori cento testate Usa decise un “endorsement”, contro 92 nel 2008, un declino avvenuto mentre sullo sfondo sono scomparsi del tutto 2.500 giornali nel Paese. Simili cifre avevano già spinto Penelope Muse Abernathy della Northwestern University a parlare di una “perdita per la democrazia di base”.
Ma adesso la repentina neutralità dichiarata da marchi quali il Post sul fronte di una battaglia elettorale ormai agli sgoccioli e unanimemente considerata tra le più consequenziali di sempre va ben al di là di queste storica erosione, che aveva visto lo stesso New York Times indicare negli ultimi mesi che in futuro si sarebbe astenuto da esprimersi su corse locali ma non presidenziali. Può apparire un salto di qualità che dà credito alle polemiche: un sondaggio del quotidiano newyorchese, casualmente uscito negli stessi giorni, ha mostrato quasi metà degli americani delusi da una democrazia che dicono non li rappresenta e il 76% definire la democrazia stessa in pericolo.